Storia dell’ultimo album dei Nirvana e dell’ultimo vero e proprio sussulto grunge.
Prima di potersi accostare con la giusta distanza alla storia e alla musica dei Nirvana è sempre bene discernere tra il “fenomeno” Nirvana, che elevò, in un batter d’occhio, il gruppo a simbolo generazionale, e Cobain a martire della libertà, cristallizzando i tre ragazzi di Seattle in una fredda immagine da copertina, e la crudele realtà di un’anima fragile che forse “troppo amava” ma che cedette, esausto, il passo alla morte. Era il 1993. Alle spalle c’erano già stati due album in studio. “Bleach”, opera, forse, ancora troppo grezza e immatura, e “Nevermind” vera e propria pietra dello scandalo.
Pietra dello scandalo per varie ragioni. Da una parte il grande successo cancellò ferocemente le volontà fondanti del gruppo, trasformando, coloro i quali lo stesso Iggy pop definì successori dei suoi Stooges, in un gruppo “troppo famoso”, in veri e propri idoli generazionali e adolescenziali da stampare, in serie, sulle magliette. Dall’altra parte la potenza distruttiva di Nevermind appare, a posteriori, come l’ultimo grande sussulto rock, quel rock capace d’essere rivoluzionario, capace di arrivare a tutti. In un’intervista durante l’evento celebrativo per i vent’anni dall’uscita dell’ultimo loro album “In utero”, il bassista Novoselic descrive così il legame, a tratti viscerale, che si instaurò col pubblico nei mesi successivi all’uscita di Nevermind: “Un’infinità di ragazzi veniva a raccontarci quanto e quale importanza avessero quelle canzoni sulla loro giornata, sulle loro vite e persino sulle loro estati. Era come se il grunge avesse spazzato via l’idea delle vacanze a base di tormentoni. -Siete voi la nostra colonna sonora-, ci dicevano. Così capimmo che i nostri dischi non solo creavano una sorta di rapporto intimo tra noi e i fan ma anche tra i ragazzi. Un fenomeno non facile da spiegare, non ci riusciva neanche Kurt, non era facile per lui sopportare il peso di quella responsabilità, soprattutto perché noi cominciammo a suonare perché non sapevamo fare altro, avevamo venti anni, il rock era la nostra vita e la nostra religione. Quello che è successo dopo non è dipeso dalla nostra volontà“. Su Cobain aggiunge: “C’era uno squilibrio all’interno dei Nirvana che rendeva le cose anche più difficili di quanto si immagini. Era sempre e solo Kurt a subire il peso della pressione che si scatenò sulla band dopo Nevermind, da parte del pubblico e dell’industria. Era lui il cantante, il front man, l’autore delle canzoni e ormai anche un simbolo. Dall’altra parte della barricata non c’era il paradiso, ma un altro inferno causato dai molti problemi personali che lo assillavano”. C’è da rilevare che la band, Cobain in particolare, non era soddisfatta del suono di Nevermind, considerato troppo pulito, troppo raffinato, unidimensionale, come lo definirà lo stesso Cobain nel 1992 a Rolling Stone, anticipando anche che il “nuovo album” si sarebbe preoccupato di mostrare entrambi gli estremi del suono.
Con queste premesse arriviamo al 1993. I Nirvana entrano in studio per incidere il nuovo album. Lo stesso Novoselic fotografa la situazione in cui verteva la band in quel periodo: “Kurt era devastato dai problemi personali. Ci riunimmo tutti a Seattle nel tentativo di trovare una via d’uscita attraverso la musica. La sua idea era di recuperare a tutti i costi il suono dei primi Nirvana, per questo ci rinchiudemmo in uno studio isolato del Minnesota, irraggiungibili da chiunque, tutt’intorno solo neve e animali (era febbraio). In utero vide la luce in quella specie di Siberia inospitale. Kurt non mollava, aveva in mente di trasformare la pop band che eravamo diventati con Nevermind in un “vero” gruppo rock – un percorso all’inverso difficile e doloroso. La prima canzone che registrammo, Serve the servants, è una sorta di manifesto di questo pensiero”. Cobain quindi cercò, attraverso la musica e una costante, a tratti spietata, tensione ironica, di distruggere il demone che lo tormentava o quantomeno cercò di riplasmarlo dandogli una forma intelligibile, una dimensione più umana. Nacque così un disco che avrebbe dovuto chiamarsi provocatoriamente “I Hate Myself And Want to Die”; nome certamente troppo forte e alla fine si virò su In utero. Un loquacissimo angelo di plastica con l’utero gonfio di nude viscere fa da copertina all’album, mentre la registrazione fu affidata a Steve Albini, conosciuto sia per aver prodotto album dei Pixies, dei Jesus Lazard e di PJ Harvey, che per la sua tecnica di registrazione che consiste nel disseminare microfoni per tutto lo studio, così da riuscire a captare anche la dimensione fisica, corporea del suono. Ne venne fuori un album sicuramente diverso da Nevarmind. Sempre Novoselic ne parla in questi termini: “A livello di suono riuscimmo nei nostri intenti. Quando riascoltammo In utero, alla fine delle due settimane in Minnesota, il risultato era decisamente quello che ci eravamo prefissati. Nel disco non c’erano concessioni commerciali. Dopo molte insistenze da parte della casa discografica, rimixammo solo un paio di canzoni. Ma al di là di questo, In utero è un disco purissimo e realizzato senza interferenza alcuna, e soprattutto come se Nevermind non fosse mai esistito.” Che “Nevermind non fosse mai esistito” appare una frase poco realistica. Se prendiamo ad esempio il “manifesto”, Serve the Servants, l’incipit è questo: “La rabbia giovanile ha pagato bene, ora mi sento annoiato e vecchio”. Ciò che, quindi, troviamo tra le piaghe distorte della prima traccia dell’album è un chiaro e cocente rimando al Teen Spirit di Nevermind. Serve the Servants non è l’unico esempio. In Rape me, riprendendo l’iper riff di Smell like teen spirit, Cobain cerca di distruggere con masochistica veemenza quell’urlo adolescenziale divenuto il suo assillo; da un urlo si si viene trasportati in un altro, ma questa volta, questo “stuprami”, ripetuto ossessivamente fino alla lacerazione, non lo si può accompagnare, non ci si può rispecchiare, è un urlo solitario che ti sbatte dritto in faccia tutta la rabbia di un’anima straziata, ormai tutta ripiegata su sé stessa.
In utero è e rimane probabilmente l’album della maturità, dotato di una ricchezza unica che supera concretamente, su tutti i versanti, il precedente Nevermind. Partendo da Serve the servants, canzone “stanca”, si arriva a Scentless Apprentice, macabro omaggio a “Il Profumo”, romanzo di Patrick Susskind, accompagnato da voce e chitarra costantemente in tensione tra discese e salite. C’è poi Heart-Shaped Box, straziante rifermento al suo personale amore per la Love. Frances farmer will have revenge on Seattle, accorato e potente frammento dedicato a un’attrice hollywoodiana degli anni trenta-quaranta, massacrata a forza di psicofarmaci ed elettroshock causa il suo sprezzante anticonformismo sinistroide. Dumb, ballata leggerissima che avrebbe potuto anche chiamarsi “confessioni di un tossicodipendente”. Alla graffiante Very Ape segue Milk it, potenza che ricorda il primo rumorismo di Bleach, uno stillicidio sprezzante, spasmodico. La nona traccia è Pennyroyal Tea. Un soffio liberatorio di abbandono alla morte dove il Tea può essere interpretato come un cocktail stupefacente ma anche come gli incassi che piovevano sulla band. Radio Friendly Unit Shifter e Tourette’s timbrano l’album prima del gran finale di All apologies; l’una con una ritmicità ossessiva che esplode in un arrembante rincorrersi tra voce e strumenti, l’altra, ispirata alla sindrome di tourette, esplode in una voce devastante, sincopata che si disintegra fino all’eccesso. All apologies racchiude in sé tutto l’album, ne avvolge gli spigoli, e col vento di un violoncello lo spolvera, ripulisce, e riconsegna alla luce di un nuovo sole. Rimane in ultimo la traccia nascosta Gallons Of Rubbing Alcohol Flow Through The Strip improvvisazione omaggio ai Pixies presente solo nella versione europea. Musicalmente la band ha raggiunto il suo scopo. Entrambi gli opposti sono racchiusi, in forme diverse, nell’album, potenza e fragilità. Rabbia e abbandono. Disperazione e sberleffo, distruzione e rinascita. Morte e vita. Se Nevermind è probabilmente l’album più importante dei Nirvana per svariate ragioni, sotto la membrana di In utero si nasconde una disperazione diversa, silenziosa ma non meno potente; una disperazione forse più onesta e intima, e per questo più accorata, più sincera. Tutto ciò rende forse questo disco l’ultimo grande sussulto Grunge ma soprattutto l’ultimo grande sforzo verso l’esistenza di Cobain. Kurt Cobain sarà trovato morto nella sua casa di Seattle il 5 aprile 1994. Farà ancora in tempo a lasciarci, nel 1993, quel corpo raro che è l’Unplugged in New York.