Il rumore bianco, il cosiddetto white noise è il suono più vicino al silenzio assoluto perché copre tutte le frequenze udibili simultaneamente. Comprimere un intero film in un’unica immagine. Dipingere il mondo come se l’umanità fosse, improvvisamente, scomparsa nel nulla. Rappresentare lo spazio attraverso le orme di una presenza passata. Innocente lusso, punto di riferimento per il pensiero, linguaggio privilegiato è la “Trilogia del Silenzio”, il nuovo progetto espositivo declinato in tre mostre in programma dal 28 gennaio al 31 luglio alla White Noise Gallery di Roma, a cura di Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti.
L’impossibilità fisica di creare l’assenza genera da sempre una fascinazione irrisolta. Nel celeberrimo brano 4’33” di , infatti, il silenzio degli strumenti acquistava senso in relazione al rumore variabile del pubblico, perché il vuoto e il silenzio sono pura astrazione e più si tenta di raggiungerli, più emerge il loro opposto. Tre artisti internazionali, tre mostre personali, tre linguaggi dissimili riuniti in un’unica traiettoria di pensiero: narrare l’umanità attraverso la sua assenza con il fine per nulla celato di creare il silenzio. La sfida è stata raccolta da Jason Shulman (le cui immagini sono, nel loro essere dense, nel contempo inverosimilmente caotiche ed affatto silenziose), Lee Madgwick e Mar Hernàndez con Fast Forward, Stand-By e Rewind, titoli delle rispettive mostre e uniche condizioni in cui il suono esiste, ma non può essere percepito.
Come un lungo videotape guidato da questi comandi, la “Trilogia del Silenzio” inaugura il 28 gennaio con Fast Forward, personale fotografica dell’artista inglese di fama internazionale Jason Shulman, capace di comprimere migliaia di frame di film cult in un’unica fotografia. Il progetto prosegue l’8 aprile con Stand-by in cui il mondo viene congelato in un’eterna istantanea nei dipinti del britannico Lee Madgwick, e si chiude il 14 giugno con Rewind dell’artista spagnola Mar Hernàndez, che, con le sue opere tra disegno, incisione e fotografia, rappresenta la realtà attraverso le tracce fantasmatiche di un passato che non esiste più. Jason Shulman è il primo della “trilogia” ad esporre: Fast Forward dal 28 gennaio/25 marzo 2017
Scultore e fotografo eclettico di fama internazionale, Jason Shulman arriva per la prima volta in Italia, dopo diverse collaborazioni con artisti del calibro di Marc Quinn. Artista che ama utilizzare il metodo empirico proprio della scienza, Shulman comprime le centinaia di migliaia di frame di un film in un’unica immagine fotografica attraverso lunghissime esposizioni dell’obiettivo.
A Roma presenta 13 fotografie a grande formato che condensano l’America di Sergio Leone (Per un pugno di dollari), l’orrore di Dario Argento e Mario Bava (Suspiria, Inferno, I 3 volti della paura, Diabolik), ma anche l’Italia piena di inquietudine raccontata dai maestri del cinema dagli anni ‘60 a oggi, da Visconti (Il Gattopardo) a Sorrentino (La grande bellezza), da Tinto Brass (Caligola) a Pasolini (Salò o le 120 giornate di Sodoma e Il Vangelo secondo Matteo).
La scelta delle opere viene effettuata con criteri unicamente estetici, mentre la dominante di colore che emerge in ognuna delle sue opere collega senza interposizione lo spettatore alla propria conoscenza del regista e del relativo immaginario. Se, ad esempio, la dominante ocra rimanda alla polvere del vecchio west di Sergio Leone, la dominante rosa rimanda subito ai fenicotteri ricorrenti nelle sequenze de “La grande bellezza” di Sorrentino. Le scene del film si sovrappongono, l’audio sparisce, il movimento viene condensato e la logica del racconto perde di significato in favore di un’impressione del tutto emotiva. Esperimenti visuali che diventano composizioni astratte in cui bisogna rinunciare al dettaglio per comprendere il tutto. Dal punto di vista estetico uno dei riferimenti di Jason Shulman è sicuramente Gerhard Richter, ma l’artista inglese condivide con l’Arte Processuale degli anni ‘70 la stessa fascinazione per l’imprevedibilità. L’artista non è mai pienamente certo del risultato che un particolare film produrrà sulla macchina e non è in grado di definire aprioristicamente se l’esperimento avrà successo o meno. E ciò deve bastare se “ars gratia artis”.