La musica, come quasi tutte le altre forme artistiche, è composta da vari livelli e sfaccettature di comprensione. Quanto l’industria discografica incide nella musica non solo che ascoltiamo per passione, ma che ci viene proposta con forza attraverso tutti i canali pubblicitari, prima e digitali oggi? La risposta è, al contrario di quanto si speri: “Moltissimo!”. Si potrebbe quasi dire che la macchina discografica sia come un selettore naturale che si attiva prima di ogni altra selezione personale dettata dai gusti, dalle necessità o anche semplicemente dallo stile.
La musica è solo musica, non fasciamoci la testa. Non c’è dietro nessun disegno superiore. Non è più la colonna sonora di movimenti sociali e politici e negli ultimi anni ha perso anche il suo ruolo di riempimento dei salotti e il suo peso nelle discussioni. Questo in qualche modo ne lede l’importanza e l’efficacia? Assolutamente no, anzi, forse l’evoluzione musicale sta mettendo in chiaro un concetto fondamentale del quale spesso ci si dimentica. La musica che si ascolta, prima di qualsiasi altro significato attribuitogli da terze parti, è la colonna sonora personale di ognuna delle nostre vite. Ci si può emozionare ascoltando un gruppo di punta che ultimamente spopola nelle librerie degli amanti del mainstream tanto quanto ci si può ritrovare sommersi da una band totalmente sconosciuta beccata per caso a suonare nel pub sotto casa o trovata ancora più per caso su qualche canale Youtube, Soundcloud o Spotify. Questo è il ruolo primario della musica come forma d’arte: emozionare. Tutto il resto è paesaggio, in qualsiasi modo si voglia porre la questione. Quindi è tutto perduto? Le case discografiche ci propinano cavolate e la vera passione ristagna dietro microscene underground? A volte si, a volte no. In questo caso a noi basta prendere per vero che non c’è casa discografica, momento sociale o Spotify di turno che possa competere con il nostro personale gusto musicale. Voglio dire, Brian Eno è probabilmente una divinità pagana caduta per sbaglio nel nostro tempo, e questo non gli impedisce di collaborare con grandi del passato (King Crimson), geni contemporanei della scena underground (David Byrne) e nel frattempo scrivere la musica per i computer della Microsoft. La musica è musica, prima di tutto.
Oggi parliamo di un gruppo che incarna bene questi concetti non occupando ancora un ruolo definito e predominante né all’interno della scena mainstream e neanche nella nicchia underground, ma che continua a fare il tutto esaurito ai loro concerti e ad accaparrarsi una schiera sempre maggiore di fan di ogni tipo: sono gli Alt-J, nati da un incontro fatale dato che quattro membri della band frequentavano tutti l’università di Leeds. I primi brani ricorrono infatti a quel periodo con l’aiuto di Garage Band. Escono per la prima volta con un Ep di sette brani per la minuscola Infectious Records nel 2012; preludio all’uscita nello stesso anno del loro primo disco dal titolo “An Awesome Wave” per la Canvasback Music, altra minuscola etichetta che oscilla fra l’indie e un mercato più “facile”. Il disco è come un esplosivo: lo stile estremamente eclettico della band gli permette di arrivare a qualsiasi tipo di ascoltatore e in poco tempo arriva la candidatura ai Brit Award dello stesso anno della pubblicazione; viene premiato come album dell’anno dalla BBC Radio 6 Music ma soprattutto vince il Mercury Prize, riconoscimento molto ambito che sancisce in modo definitivo per lo meno la bellezza estetica della fatica degli Alt-J. A questo punto si parte per una tournée molto lunga che tocca tutti i paesi dove nel frattempo il disco o i singoli estratti entravano in classifica e in questo caso questo significa molti paesi in cui esibirsi. Nel 2014 dopo aver perso Gwil Sainsbury, bassista/chitarista, ma soprattutto uno dei compositori più ispirati della band, esce il nuovo “This is All Yours” che ricalca in pieno lo stile e le atmosfere del primo fortunatissimo disco. Adesso il gruppo è di nuovo in giro per un lungo tour.
Insomma gli Alt-J incarnano al massimo la complessità del mondo musicale di oggi. Il loro nome viene da una dicitura di un simbolo sulla tastiera del Mac ma quello che suonano spazia dall’elettronica fino alle derive più roots del folk; non vi ricorderanno nulla di quello che già conoscete; vi stupiranno e conquisteranno con la loro vena sempre a metà strada da qualsivoglia assolutismo stilistico prediligendo solo la bellezza e l’ispirazione compositiva. Ingredienti che se mischiati al meglio creano una miscela emotiva inarrestabile. Nient’altro da aggiungere, correte ad accaparrarvi tutto quello che trovate su di loro.