E’in tour in Italia in questi giorni Neil Young, uno dei pochi sopravvissuti (bene) a Woodstock, il primo indie e il primo grunge, l’ultimo dei punk e molto altro ancora. In una parola: un grande del rock nelle sue varie declinazioni, tra melodia acustica e furore elettrico.
Gli amici che lo seguono in giro per l’Europa, dotati di portafoglio a fisarmonica, buoni piedi e tanta passione, assicuravano da settimane che Old Man era in forma smagliante e che gli Young Kids che lo accompagnano (Promise of The Real, un nome, un programma) aggiungono la linfa vitale che si era andata esaurendo nei vecchi compagni di avventura. Avevano ragione.
L’uomo visto e ascoltato a Piazzola sul Brenta, nella prima tappa della leg italiana, è un settantenne in grado di dare la birra a molti ventenni attuali (come il più giovane, ma di poco, Bruce), caracollante sul palco con una mole sempre più importante, ma leggero e svolazzante appena imbraccia una chitarra.
Le note inconfondibili di After The Gold Rush, scandite al piano, fanno intuire che la serata sarà indimenticabile. Il concerto comincia acustico, inanellando gemme preziose come Heart of Gold , The Needle and the Damage Done, Old Man, tutte dal capolavoro Harvest, disco che lo ha fatto grande ma anche precipitare in una crisi che sembrava senza fondo. Uomo dalla vita spericolata il nostro, che appare comunque nella terza età più che pacificato, alla testa di una banda di ragazzi scatenati e selvaggi come i Crazy Horse non sanno, non possono più essere. E, parliamoci chiaro, non lo sono stati mai. Con i POTR, Young ha trovato il gruppo spalla ideale, la balaustrata di brezza su cui appoggiare la sua malinconia e le sue cavalcate elettriche (che arrivano, con le psichedeliche e interminabili Like a Hurricane e Down By The River intrise di feedback, capaci di seguirlo in un’intricata versione spanish di Hold Back The Tears e di spingerlo a cantare Nel blu dipinto di blu, intonato piano e voce da Lukas Nelson, il chitarrista che sembra un incrocio tra un Danny Whitten più muscolare e un Kurt Cobain corpulento. Nella geometria del suono, la seconda chitarra è quella del fratello Micah (entrambi figli di un certo Willie, non so se mi spiego) che si destreggia pure con garbo alle tastiere. E tutti cantano in coro e a tratti il pensiero va a quei quattro che cantavano come i Beatles e suonavano come Hendrix. Altra storia, però.
Chiamale, se vuoi, emozioni. Quelle che vengono fuori quando lui ripesca gemme come Winterlong o Here We Are in the Years dal primo album come ultimo pezzo, dopo che Like an Inca e un’incandescente Rockin’in The Free World dove si scaglia, l’antico hippie oggi miliardario, contro le corporations che stanno rovinando la terra, hanno definitivamente steso l’uditorio. Hanno suonato tre ore, il vecchio e i bambini, abbracciandosi alla fine e saltellando in un rito celebratorio dell’eterna potenza del rock, capace di unire le generazioni. Sul palco, ma anche in platea dove capelli grigi si mescolano a curiosità colorate.
Buon vecchio Neil, ancora una volta li hai mandati a casa tutti. Se capita dalle vostre parti, non perdetelo. Non è il futuro del rock and roll, ma è il concerto dell’anno e nuove sorprese vi attendono.
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