Calexico al BOtanique di Bologna, il folk rock ibrido che fa ballare

Tra la California e il Messico, come da nome in ditta, il folk rock ibrido dei Calexico cattura, coinvolge e trascina spesso alla danza, sotto gli alti alberi dei giardini di Via Filippo Re. La data del Botanique targato Estragon si apre con la sottile psichedelia crescente di “Para”, brano inedito che i nostri (bontà loro) mettono in download gratuito sul loro www.casadecalexico.com. Un sampler che consente di farsi l’idea di quello che ci aspetta in concerto: musica che scorre in direzioni diverse, strumentazione ricca che i musicisti si distribuiscono fra loro, sound pulitissimo e levigato, tra alt-country e cumbie, dominato dallo straordinario lavoro percussivo di John Convertino, maestro della batteria sapiente e descrittiva, su cui si innestano la voce vellutata di Joey Burns e il suo chitarrismo essenziale. Sono loro i due poli su cui si muove la musica del settetto. Martin Wenk che si alterna con scioltezza tra vibrafono, tromba, accordion, chitarra e voce, onnipresente. Jacob Valenzuela con tromba e percussioni fornisce i sapori messicani che trasformano spesso e volentieri il gruppo in un’orchestra mariachi. Jairo Zavala è l’ altro chitarrista che si alterna tra telecaster e steel. Sergio Mendoza giganteggia con tastiere, guitarra, percussioni varie. Insieme a Convertino, Volker Zander al contrabbasso e al basso fornisce la colonna ritmica su cui si appoggia l’insieme.

E’ onnivora, sapiente e divertente la musica di Calexico. E’ diventata meno introspettiva rispetto agli esordi di “Black Light” (il gruppo, parsimonioso, ha inciso otto album in vent’anni), ma più ricca di sapori e spezie. Nuovi arrangiamenti rivestono i vecchi brani (“Black Heart”, “Guero Canelo”, “Where Water Flows”), si attinge molto all’ultimo “Edge of the Sun”, ad un certo punto il gruppo omaggia gli anni Sessanta a Los Angeles con la cover di una band che non si è capito bene, ma non importa. Tutti rapiti da questo procedere ritmico incessante, a tratti quasi subliminale. La macchina dei Calexico è perfetta, produce un sound unico, talvolta qualche passaggio di chitarra ricorda il Santana più latino, ma è solo un’illusione. L’anima latina permea le scorribande di chitarre e trombe, l’intreccio di voci, il ritmo pulsante rende impossibile stare fermi. Più volte Burns ringrazia il pubblico di Bologna, che considera “la mia seconda casa” (la band ha già suonato qui diverse volte, l’ultima nel novembre di due anni fa all’Estragon), presenta i componenti del gruppo, collettivo sonoro affiatissimo dietro i cui atteggiamenti scherzosi dal palco si intuisce una solidissima preparazione musicale.

Calexico è un marchio di qualità, e Joey Burns rende opprtuno merito (non lo fanno in molti) ai tecnici che rendono il suono nitido, presente, ben distribuito. Una grande serata di musica, piacevole come un margarita sorseggiato che scende giù nella gola, tra limone e sale, sapori contrastanti che creano un cocktail riuscito.

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