Niccolò Fabi – Una somma di piccole cose

Chi si lamenta della morte della scuola cantautorale italiana dovrebbe aggiornare la propria discografia personale e notare che da vent’anni c’è qualcuno che non fa per nulla rimpiangere i fasti del passato targati De Andrè, Guccini, De Gregori et similia. La musica cambia, si modifica insieme alla società perché della stessa società è simbolo, è cultura, è messaggio.
Da oltre vent’anni l’ingrato mestiere del cantautore Made in Italy pesa sulle spalle di gente come Niccolò Fabi: un autore delicato, un filosofo con la chitarra in mano.

Non dimentichiamo di certo i suoi illustri colleghi della cosiddetta scuola romana (vedi Silvestri, Gazzè, Sinigallia), ma siamo qui, in questa sede, per parlare dell’autore di “Capelli”, che dal 1996, anno del debutto, è cresciuto un bel po’ e ci consegna, a due decenni esatti di distanza, un album capolavoro.

“Una somma di piccole cose” è prima di tutto un insieme di grandi canzoni. Un disco essenziale, ridotto all’osso negli arrangiamenti e per questo intimo e confidenziale. Anche se non ci sono riferimenti partitici, non c’è l’invito a “scendere in piazza”, è un album politico nel senso più nobile del termine. Con questa raccolta di 9 canzoni inedite, Fabi ci invita a riflettere sulla nostra condizione sociale, sull’alienazione della società moderna. Apre uno sguardo illuminante sulla situazione attuale sempre più frammentata e disumanizzata. E lo fa cantando sottovoce, utilizzando una chitarra acustica, un pianoforte e delle percussioni. Niente di più.

Il disco si apre con “Una somma di piccola cose” – title-track non a caso – simbolo della filosofia portante dell’ottavo lavoro in studio del cantante romano. La canzone è un invito a godere dei dettagli, dei gesti comuni, apparentemente insignificanti perché ricorrenti, ma essenziali nella composizione del nostro essere. “Il sorriso regalato a quel passante,un paragrafo di una pagina qualunque”, ma anche “un patto firmato, un bacio non dato”. Tante piccole cose che compongono il nostro universo umano complesso e indecifrabile. Questa canzone è una vera e propria lente d’ingrandimento in versi e musica.

Si continua con “Ha perso la città”, brano velato d’ironia che racconta la disumanizzazione dei nostri centri urbani e, all’ascolto, ci si sente come formiche impazzite all’interno di agglomerati cittadini che non sono più a misura d’uomo: “Hanno vinto le corsie preferenziali, hanno vinto le metropolitane, hanno vinto le rotonde e i ponti a quadrifoglio alle uscite autostradali”. Fabi apre dunque gli occhi sulla nostra condizione di abitanti sempre più dentro le città, ma allo stesso tempo fuori dal loro contesto.

La terza traccia è una delle canzoni più intense del disco. “Facciamo finta” è una dedica all’amore scomparso, una ballata struggente e delicata dove Fabi si mette a nudo nella maniera più elegante possibile per parlarci di quello che un uomo può perdere. Sembra quasi di ascoltare il Damien Rice di “Delicate”, per stile e intensità del racconto.

Si passa dunque a “Filosofia agricola” e “Non vale più”. La prima è una dichiarazione d’intenti, il personale “Into the wild” del cantante, un invito ad abbracciare la natura e i suoi ritmi, abbandonando le gabbie della modernità, i “cumuli di memoria”, le artificiosità: “Più che felice e fertile se la filosofia diventa agricola. La terra che ci ospita comunque è l’ultima a decidere”. Se la speranza ambientalista regna sovrana in questa canzone, in “Non vale più” è la disillusione a fare da padrona. E’ la resa dei conti, il totale deficitario della nostra società: “Il sogno di un uomo che tende la mano, la speranza reale di una sveglia collettiva oggi non vale più.” Sovvertire l’ordine prestabilito è ancora possibile? E’ questa la domanda che fa da sfondo a tutto il brano: “Ma le grandi rivoluzioni fanno molta paura come molta paura fa fare grandi rivoluzioni” .

E’ la volta di “Una mano sugli occhi”, sesta traccia del disco. Un piano e una voce che raccontano una storia d’amore, ancora una volta attraverso le piccole cose, i gesti quotidiani. Un altro brano di altissima intensità, una canzone d’amore tra le più belle scritte da Fabi. Una riflessione matura su un amore altrettanto maturo: “Non è più baci sotto il portone, non è più l’estasi del primo giorno, è una mano sugli occhi prima del sonno”.

Settima e ottava traccia sono occupate da “Le cose non si mettono bene” e “Le chiavi di casa”. Altre due canzoni d’amore. La prima è caratterizzata dall’urgenza dell’azione, dalla possibilità di salvarsi da questo mondo solo attraverso l’aiuto della persona amata: “Prendi tutto che scappiamo via non c’è tempo, presto gli altri arriveranno a chiederci di più”.
“Le chiavi di casa” è invece la dedica di un padre nei confronti di un figlio. Una serie di immagini dolci che raccontano la protezione, la venerazione e l’affetto di un genitore nei confronti della propria creatura: “La tua risata è vita e luce tra le persiane, regalo di genetica e domenica di sole”

L’ultima traccia è, forse, il punto più alto a livello emotivo dell’intero disco. “Vince chi molla” parla dell’importanza di sentirsi parte di un flusso, parla di lasciarsi andare, scorrere insieme al mondo. E’ una canzone che arriva come un sussurro nelle nostre orecchie. Fabi canta nel modo più delicato e intimo possibile. Ad accompagnarlo pochi accordi di pianoforte che fanno da sfondo a dei versi intensi e ispirati: “Distendo le vene e apro piano le mani, cerco di non trattenere più nulla, lascio tutto fluire”. Sembra quasi essere una risposta a tutta la tensione emotiva accumulata nel disco. La soluzione è a portata di mano, è racchiusa in questa frase che chiude questo ciclo di nove canzoni: “La salvezza non si controlla, vince chi molla”

In definitiva, “Una somma di piccole cose” è un disco prezioso. Prezioso per la qualità complessiva della scrittura musicale e dei testi. Niccolò Fabi è veramente in uno stato di grazia e dimostra di saper fare il suo mestiere egregiamente. E’ un disco prezioso perché è più di un disco, è più della somma delle sue parti: è un racconto completo, un viaggio, una fotografia dei nostri tempi. E’ la dimostrazione che si può veicolare un messaggio forte anche senza gridare, senza abbandonarsi al frastuono e al rumore, ma semplicemente raccontandosi sottovoce, con una chitarra tra le mani e molte cose da dire.

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