Disponibilità, schiettezza e umiltà sono le caratteristiche dei migliori cantautori, Omar Pedrini è uno di questi. Oggi posso dire di aver conosciuto e intervistato, oltre che un grande artista, una gran bella persona.
È difficile fare rock in italiano?
Oggi no, oggi è scontato. Quando ho iniziato io, esistevano pochissimi gruppi rock in Italia, e i discografici ci consideravano pazzi sostenendo il fatto che non avremmo avuto un futuro perché il rock funzionava meglio in inglese. Io, però, davo molta importanza ai testi, sapevo bene che in Italia i testi in inglese non si ascoltavano, si canticchiavano. Quando arrivarono i primi due dischi d’oro del rock italiano, LITFIBA e TIMORIA, le case discografiche iniziarono a investire sul rock cantato in italiano. Oggi è diventata una schiavitù, oggi devi cantare in italiano, infatti, se io iniziassi adesso, canterei in inglese!
Quando i nuovi gruppi mi dicono di essere nati ascoltando i Timoria, mi rendo conto di aver fatto un lavoro da pioniere, ma l’ho fatto inconsapevolmente, non pensavo, negli anni ’80, che fosse una rivoluzione culturale.
Intraprendere la strada da solista, dopo aver suonato per molti anni in un gruppo, è stato difficile?
È stato abbastanza difficile, perché l’ho fatto per necessità più che per diletto: mi sono ritrovato senza cantante dopo essere stato sempre un chitarrista che cantava una canzone ogni tanto. Dopo aver scritto “Sole spento” e aver vinto un disco di platino, per tutti sono diventato un cantante. Io, tuttora, non mi sento un cantante, mi sento un cantautore. I cantanti sono altri, quelli impostati, con la bella voce. A me piace interpretare.
I tuoi rapporti con Francesco Renga?
I rapporti con Renga sono abbastanza cordiali. Ormai siamo due mondi musicali molto distanti, a me non piace il tipo di pop che ha scelto, e penso che a lui non piaccia il mio rock. L’importante è che ci sia stima umana. Abbiamo seppellito l’ascia di guerra!
Nel brano “Che ci vado a fare a Londra” è presente la frase “Se ti amo e poi ti perdo il dolore resterà con me”. A volte è meglio non abbandonarsi all’amore per evitare di soffrire o questa paura non dovrebbe fermarci?
Questa è una frase tipica di chi ha sofferto. A una ragazza di vent’anni direi che vale la pena soffrire. Bisogna mordere la mela da giovani! Poi l’esperienza ti insegna a dare spazio a ciò che è veramente importante. Crescendo si diventa più selettivi in tutto, nel cibo, negli incontri, nel sesso, nell’amore. Da giovani si è più bulimici con i sentimenti, è normale, quindi ad un ventenne direi “Buttati!”, come lo direi ai miei nipoti, che mi chiamano Zio Rock, o a mio figlio.
Cosa significa Londra per te?
Londra mi ha dato tanto. Io ho iniziato la mia carriera da solista nel 2004 a Sanremo con il brano “Lavoro inutile”, lì ho ricevuto il premio della critica come miglior testo, quindi ero molto entusiasta, credevo di ricominciare da solo e di farcela anche senza la band. Purtroppo, due mesi dopo, mi sono ritrovato nel letto di un ospedale in fin di vita, e ho scoperto di avere una malattia al cuore che mi perseguita da anni, quindi sono stato fermo molto tempo. “Che ci vado a fare a Lodra” è uscito otto anni dopo il precedente album, otto anni nella musica sono come trent’anni nella vita. Ho ricominciato da zero tre anni fa. Devo dire che sta andando bene: ho trovato il pubblico, il disco ha venduto, le radio mi aspettavano. Io non credevo che ciò potesse essere possibile. Tutto questo si è realizzato forse anche perché sono stato riscoperto da un grande come Noel Gallagher. Credo che in Italia non avrebbero più prodotto i miei dischi. Paradossalmente, una rockstar mondiale ha sentito i miei provini, i suoi manager mi hanno convocato e ho firmato un contratto in Inghilterra. Adesso sto lavorando per delle band inglesi, scrivo per artisti inglesi, e questo è sempre stato il mio sogno, perché io sono cresciuto con la musica inglese.
La follia, che canti nell’album “Pane burro e medicine”, ti ha accompagnato nel tuo viaggio musicale?
Io credo che la follia, la sana follia, ci mantenga vivi. Avere un sogno, avere un lato sempre pronto a tutto sono fattori importanti nella vita, a prescindere dal proprio mestiere. Se non fossi stato un folle, a diciotto anni non sarei andato da Brescia a Milano, allora, per noi ragazzi degli anni ’80, andare a Milano era un vero e proprio viaggio. Solo così ho potuto realizzare il mio sogno.
Denuncia, disillusione e speranza. In brani come “Ragazzo non aver paura” e “Jenny scendi al fiume”, c’è il tentativo di trasmettere, soprattutto ai giovani, in un presente sterile e disastrato come il nostro, una fiducia nel cambiamento?
Io faccio fatica a dire alle nuove generazioni di avere fiducia. Bisogna averla però, non c’è altra scelta. Credo che ogni epoca abbia i suoi drammi e le sue gioie, la nostra è sicuramente un’epoca difficile. Mio padre ha fatto la guerra, ha vissuto la miseria, la distruzione, la morte, eppure ha creato una famiglia, ha avuto dei figli, adesso è un uomo felice.
Nel 2004 hai partecipato al Festival di Sanremo con il brano “Lavoro inutile”. Quel palco fa tremare tutti. Ricordi l’emozione di quei giorni?
Io ho partecipato quattro volte a Sanremo: due volte con i Timoria, una volta da solo e la prima volta a soli diciassette anni come chitarrista di Jo Squillo che cantava “Terra magica”. Fu una bella esperienza salire su quel palco in giovanissima età.
Come hai conosciuto Jo Squillo?
Provavo con il mio gruppo nella sala prove di suo marito, il bassista di una band che ci prestava la sala prove. Lei cercava un chitarrista, non so se le piacessi per il look o per la musica, e così partecipai al mio primo Sanremo.
Credi che il palco di Sanremo, nel 2004, sia stato una buona vetrina per promuovere il tuo nuovo lavoro da solista?
Quel palco è sempre una vetrina importante, ma è il modo in cui si affronta che può determinare positività o negatività. Per me l’importante è andare lì a fare la propria musica, detesto chi va a Sanremo e porta la tipica canzone sanremese, troppo facile!
A proposito del brano “Lavoro inutile”: tu canti “Ho imparato a stare bene con me”. Quanto è importante stare bene con sé stessi?
È fondamentale. Bisogna sentirsi in compagnia anche quando si è da soli, sapersi ascoltare e apprezzare.
“Quelli come me parlano alla luna”. Quelli come te si salvano sognando?
Sì, sicuramente. Il sogno è fondamentale nella mia vita, altrimenti non farei l’artista, sarebbe una contraddizione.
Veronica, Nina, Jenny… La figura femminile, in tutte le sue sfaccettature, costituisce un mondo da cui trarre ispirazione?
Io sono cresciuto con le donne, i miei si separarono e mio padre andò via di casa quando io avevo dieci anni e la mia sorellina otto. Sono cresciuto con le amiche di mia madre e di mia sorella, in mezzo alle donne. Le conosco bene, entro in sintonia con loro perché ragiono molto da donna, nonostante la mia fisicità maschia!
Mia madre era una hippie, a casa si suonava, si cantava, mi portava ai concerti. Il mio è stato sempre un ambiente di artisti. Mio padre scrive poesie. Ho avuto la fortuna di trovarmi in una famiglia con un forte inclinazione all’arte, questo sicuramente mi ha influenzato molto.
Quanto c’è di Omar nei tuoi testi? Sono più autobiografici o più romanzati?
Ti rispondo rubando una frase di Federico Fellini che, un giorno, a una domanda simile, rispose: “Sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola.”
C’è tutta la mia vita nelle mie canzoni.