All’interno della stagione LA FINESTRA SUL CORTILE organizzata dal Teatro Ridotto, il 30 aprile 2016 è andato in scena Fimminamorta, pièce di teatrodanza della compagnia Teatro dei Servi Disobbedienti. Lo abbiamo visto e ve lo raccontiamo in queste righe.
Entriamo in sala, la vista è subito offuscata. Lentamente mettiamo a fuoco quel che sembra essere uno spazio ostile per chi lo abiterà. Tre porte vecchie e chiuse sul fondo, una lampadina intermittente come il cuore sui respiri a metà e a lato una chitarra e uno sgabello. Suoni metallici fanno da contrappunto a melodie lontane e s’innestano in proiezioni di mare e mostri meccanici. Una voce femminile chiede fiducia: i miei occhi sono lunghi quanto la riva, per cui ti racconto l’accaduto. Non è difficile pensare di trovarci in un luogo contaminato che lascia traccia di ciò che è stato e con prepotenza si manifesta nel suo divenire violento. Dove mettersi? Questa è l’intenzione dei personaggi, tre donne e due uomini, che fanno il loro ingresso in scena come anime ritrovatesi in bilico su un equilibrio perso. E di fatto lo sguardo è spesso rivolto verso di noi, verso l’orizzonte. Uno sguardo melanconico e indagatore. Ci sarà sollievo lontano da qui? Possiamo trovarlo allungando lo sguardo?
Il numero delle donne è pari a quello delle porte ma l’anima da aprire è di sicuro una soltanto. La stessa veste bianca per tutte, quasi un abito nuziale nel colore del candido, ma bianca è anche la neve e dal freddo che la compone a fatica tenta di sciogliersi Brucia, la protagonista di questa storia. Brucia nel corpo delle tre interpreti, canta, danza e parla della sua resistenza. La sua città è cambiata invasa, trasfigurata, come leggiamo nella presentazione, dal cieco processo d’industrializzazione. La dimensione sospesa fra conscio e inconscio, di queste tre figure continuamente moltiplicate anche grazie al gioco di proiezioni, rimanda per segno, alle tre vegliatrici de Il Marinaio di Pessoa. Le vegliatrici si tengono in vita parlandosi, raccontandosi a vicenda dei loro sogni, ingannandosi e giocando con un passato che forse non hanno mai avuto. Giriamo intorno al come fare, al come tenersi in vita quando tutto intorno urla orrore. Il magnifico sta nell’amore e per l’amore di Orazio Brucia tenta l’abbandono alla gioia. Assistiamo al gioco di seduzione di Orazio: soli di danza, passi a due e movimenti corali a braccia tese e puntuali come i macchinari proiettati intorno. Spiccano le mani, le dita cercano, spostano l’aria e mancano la presa. L’aggrapparsi non dura che un attimo. E questa girandola emotiva conduce disperatamente le tre donne di fronte a quelle porte chiuse. I tentativi di fuga trovano la morte. A porte aperte, Brucia trova la terra, si accascia, smette di reagire. Ritornano le figure maschili, l’una suona la chitarra che avevamo già visto posata all’angolo come un ricordo dentro una stanza, una possibile arma di vittoria. L’altra danza, vola Orazio e inciampa quasi come un gabbiano che stanco non trova il suo scoglio. Si avvicina a Brucia e le da un bacio sulla guancia. Ho avuto appena il tempo di morire e l’aria s’è fatta densa al tuo ingresso/ Dissolviamoci, dissolversi è il destino di chi sogna e chi ama, questo è il desiderio della donna, una donna che incapace di amare se stessa, rovinata, segnata dalla violenza del potere non vince il tentativo ma ci lascia una preghiera, invoca Amore. E ancora una volta penso a Pessoa, ai versi scritti prima di morire: Non sono nulla, una pura fantasia. Cosa aspettarsi da me stesso e dalle cose di questo mondo? E se non ho avuto amore? E se non ho avuto amore? Oh mio Dio, io non ho amore! Queste le suggestioni di un lavoro sicuramente accorato e forse per questa ragione troppo al confine con l’eccessivo patos popolare che per interpretazione e ancora una labile scrittura scenica non trova un respiro unico negli intrecci dei vari linguaggi messi in campo. Il rischio è quello di presentare quadri separati di danza, recitazione e canto dentro un impianto drammaturgico che può funzionare e riesce a muovere (applausi densi e sentiti) riflessioni attuali dentro la più semplice e complicata mancanza del nostro oggi, Amore.
L’effigie di Bice