Lo stato delle cose – Marquez

Quando ho ascoltato per la prima volta Lo stato delle cose non sono arrivato in fondo alla prima canzone.

Rumore di passi sulla ghiaia, poi bacchette sul bordo del rullante, una voce distorta doppiata un’ottava sopra da un’altra voce distorta: Uomo tu sei dio, tu non sei niente. Fiele amaro al mondo, vanità.
Accompagnamento di chitarra distorta e basso ostinato – pure lui- vagamente distorto.

Ho pensato che: Se voglio ascoltare qualcosa che suona come i Verdena ascolto i Verdena, e così, dopo quarantacinque secondi netti o poco più, ho interrotto e sono passato ad altro.

 

Poi, dopo un po’, ci ho riprovato. E ho capito che questo non è un disco fatto perché se sei un musicista ogni tanto devi fare un disco.

Marquez è Andrea Comandini, è in giro da un bel pezzo ma non l’ho mai sentito prima. A cercarlo su google viene fuori un parrucchiere di Ravenna.
So che è di Cesena, o giù di lì, e anche se non lo conosco mi sento abbastanza tranquillo nel dire che non è il tipico romagnolo un po’ tamarro e casinaro tutto piada, tedesche (anche se ora forse ci sono le russe) e motori, ma appartiene di più all’altra categoria di romagnoli, quelli schivi, malinconici e un po’ tristi alla Baldini per dirne uno.

E quando metto su il disco mi immagino fuori dal cancello di casa sua e lui che esce dalla porta, attraversa il giardino, calpesta quel ghiaino che si sente proprio in avvio, apre e come un amico mi fa entrare.

Lo stato delle cose è un disco privato, personale – forse non è un caso che sia stato registrato in casa-, in cui Marquez si confessa, tira fuori tutto quello che ha dentro di sé, mostra ciò che vede fuori da sé e lo fa in un modo intimo, ma quell’intimo che non spaventa, non allontana, anzi tende a includere, a condividere.
Ogni canzone è una storia, un’immagine, un quadro. Le sonorità e i temi sono diversi, c’è dentro il mare, il post rock, la follia, la quotidianità, il cercarsi, il pop, l’essere piccoli e persi, le ballate acustiche, l’odore delle potature, c’è anche una canzone – Altroché Milano- con un ritornello orecchiabilissimo, ci sono chitarre, piani, sintetizzatori, c’è l’acustica e l’elettronica, ci sono i fiati.

Pezzi così disparati sono legati, oltre che dalla voce e dalla poetica di Marquez, dal rumore. C’è tantissimo rumore in questo disco. Da una parte ci sono rumori “naturali” – il cigolio di uno sgabello, di nuovo il calpestio della ghiaia, cicale, il passaggio di una banda musicale- che inducono a pensare a un contesto umano e domestico; dall’altro lato rumori elettronici – feedback lunghissimi, ronzii vari, rumore bianco, distorsioni – che confondono, stordiscono, danno un senso di disagio.

E da tutti questi suoni, da tutte queste immagini così scorrelate e diverse tra loro emerge quello che secondo me è il tema principale del disco: la schizofrenia dell’uomo, prigioniero di se stesso o dell’umanità, la ricerca del proprio posto.

Comunque sia questo questo è un disco in cui percepisco un senso di necessità, come se Marquez avesse fisicamente bisogno di un qualcosa, una scatola, un contenitore, in cui riversare con forza e rabbia tutto quello che gli veniva su dallo stomaco come in un amaro, doloroso, confuso, ma liberatorio, flusso di coscienza.

Quella vaga sensazione di già sentito che avevo avuto dall’ascolto superficiale dei primi quarantacinque secondi mi ha sempre accompagnato sotto forma di paragone: “Questo potrebbe suonare come un pezzo di TizioSenti qua la voce, non è tipo Caio?”, ma alla fine Marquez con la sua onestà è riuscito a farsi strada e in più di un pezzo mi è sembrato di vedere, sentire, annusare,mi è sembrato che il mondo che raccontava fosse anche il mio.

Questo disco è un disco onesto. Non è un disco beverino da ascoltare il venerdì sera all’aperitivo

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